Ho conosciuto casualmente a Bonassola qualche estate fa Bruno Morchio, e mi hanno interessato da subito i suoi romanzi. Già una nostra amica che trascorre le estati nello splendido entroterra ligure mi aveva fatto dono del noir La crêuza degli ulivi, e dunque il suo nome mi era noto. Ho letto poi più d’un suo lavoro: voglio quanto meno ricordare Un piede in due scarpe; Uno sporco lavoro. La calda estate del giovane Bacci Pagano; Le sigarette del manager. Bacci Pagano indaga in Val Polcevera. Per professione psicologo (laureato a Padova nel 1984 con una tesi sulla terapia familiare), Morchio si era in precedenza formato a Genova sotto la guida di Edoardo Sanguineti, che aveva seguito la sua tesi su Linguaggio e ideologia ne La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda (discussa nel 1979). I suoi romanzi risentono dell’ampiezza della sua formazione culturale, psicologica oltre che letteraria. Quanto più mi ha attratto nelle sue pagine, al di là della tensione narrativa, della maestria nella costruzione dei personaggi e delle trame, è una sorta di inquietante non detto che qua e là vi traspare. Quasi ciò che veramente determina le vicende, i delitti e le indagini, non fosse quanto leggiamo, bensì una sorta di corrente sotterranea, di turbine che tutto piega a sé stesso, indipendentemente dalle determinazioni dei singoli attori. E l’inquietudine è che questo valga anche per la nostra vita, al di sotto degli enti macroscopici che la animano, e di cui sappiamo dai giornali, dai notiziari televisivi, dalle conversazioni con altri. Ma voglio ora dedicare qualche riflessione in margine alle due più recenti sue opere: Voci nel silenzio. Dalla quarantena, Bacci Pagano e gli spettri del passato in primo luogo; in seguito Nel tempo sbagliato. Entrambi romanzi sui generis, difficili da inserire in generi letterari invalsi quali il giallo, il thriller, il noir. Entrambi allargano i propri orizzonti fino a includere tematiche autobiografiche, etiche e psicologico-esistenziali.

Nel panorama delle opere che ho letto di Bruno Morchio Voci nel silenzio è il più complesso nella trama e il più originale nella costruzione; risente in modo per forza di cose più diretto dell’attualità e non vi mancano riflessioni metaletterarie. Ho fatto una certa fatica a leggerlo, confesso: ho dovuto più volte rileggere, certo non solo a motivo del declino della mia memoria.
Voce narrante, come in ogni opera di Morchio, è Bacci Pagano, investigatore privato: il suo (mutatis mutandis) Sherlock Holmes. Voce narrante, ma anche protagonista a tutto tondo del racconto: interagisce con gli altri personaggi, ha un destino per qualche aspetto analogo a quello di altri, intercala eventi della propria vita alle narrazioni delle vite altrui, che si riversano l’una nell’altra.
Non ricorderò la vicenda narrata, peraltro troppo complessa per poter essere riassunta – nulla può surrogare la diretta lettura, e queste mie righe si propongono soltanto di invitare a essa. Riprendo piuttosto a modo mio qualche punto che mi ha fatto pensare. All’inizio, in piena pandemia (nel 2020), una giovane donna (Lara) fa pervenire a Bacci Pagano, senza leggerla, una lettera, adempiendo le ultime volontà del padre appena morto di covid: Giuseppe Bortoli – personaggio quanto mai tortuoso e ambiguo, finto brigatista, legato ai servizi segreti, amorale; retribuirà Pagano post mortem, tramite Lara. Non è chiaro il motivo per cui scrive e fa consegnare la sua lettera, una sorta di testamento a futura memoria; di essa non si capisce chi ne trarrà vantaggio, se non l’immagine che Bortoli desidera lasciare di sé nel ricordo di chi gli sopravviverà. Incarica Pagano di far luce sui motivi della squallida e tragica morte della moglie, Marina Tanzi, e dell’odio maturatasi in lei nei suoi confronti. Motivi che lui già conosce; del resto, non ci sarà più quando Pagano li scoprirà. L’impressione è che vuol solo creare una cortina di silenzio (che questo motivi anche il titolo?) sul proprio criminoso passato, e offrire ai posteri una conferma dell’immagine positiva di sé che aveva costruito dapprima nella moglie, e poi nella figlia, che la terrà cara. Al di là della varietà dei personaggi che incontriamo nel romanzo, un intento sembra comune a tutti (la madre Marina, la sua amica Tania, Bortoli stesso, fino ai collaboratori vicini a Pagano): proteggere Lara da una verità accecante, che avrebbe distrutto la sua vita.
La morte di Marina Tanzi è avvenuta una ventina d’anni prima, quando Lara aveva solo due anni; Pagano l’aveva conosciuta a Cuba, ne era nato un amore reciproco, intenso anche se di breve durata. Anche più di vent’anni prima Pagano aveva difeso Bortoli con successo da un’accusa ingiusta (che si rivelerà poi non infondata). Strane coincidenze, strani rinvii, il libro ne è pieno; la loro enigmaticità si spiega solo in parte.
La lettera ci è resa nota per brani posti ad esergo a ogni capitolo della prima parte del romanzo. Che è infatti diviso in due parti: la prima prende spunto dalla lettera appunto, retrocede al giugno del 1998, allorché Bortoli già si era rivolto a Bacci Pagano, su indicazione dell’avvocato Canessa. Già qui si pongono i germi degli sviluppi successivi della vicenda. Lo sfondo per tutti (Bacci incluso) è l’esser stati coinvolti, a torto o a ragione, e in modi equivoci, tra loro differenti, nel mondo delle Brigate Rosse. Bortoli fugge in Brasile e vi resta a lungo (apparentemente come si vedrà); torna con la garanzia di non dover saldare debiti con la giustizia italiana. Ma rivelazioni di pentiti, delazioni, inesplicabili rivalse, lo accusano, e qui Pagano lo salva. In questo mondo si muovono figure quali il commissario Pertusiello, Grosso, Canessa appunto, Ardigò, Marra, Loi, De Rossi; qui avviene il presunto suicidio in carcere di Nino Paluzzi, inesplicabile, oggetto di indagini. Servizi segreti, italiani e della DDR, fuorusciti da questa come Lothar, omosessuali, un’umanità varia ma spesso moralmente equivoca, partecipa alla vicenda
La seconda parte, datata 2020, documenta la natura criminale di Bortoli, svela omicidi mascherate da suicidi o da malattie. Ma il finale è tutt’altro che da giallo: certo, indagini ci sono state, convincenti, hanno risolto problemi restati in sospeso nell’indagine del 1998; hanno messo in luce non poco dei legami interpersonali, inclusi quelli tra Pagano e sua figlia, la sua compagna, taluni amici o conoscenti. Ma il nucleo fondamentale delle indagini e delle loro scoperte (incentrate sulla figura di Bortoli e del mondo da lui mosso) ha dovuto esser mantenuto nascosto. Un giallo per solito indaga su omicidi, scopre assassini e li consegna alla giustizia; con soddisfazione del lettore, con suo catartico sollievo. Qui i risultati ci sono, ma devono essere tenuti nascosti.
Non solo l’assassino (o colui che ha guidata una catena di assassini) è morto, ma la verità su di lui deve tornare nascosta. Allargando il discorso, non so in modo quanto pertinente, aggiungo: è il senso stesso dell’investigare che viene messo in discussione, la domanda verte sulle conseguenze che può avere scoprire un colpevole. Tanti interrogativi restano sospesi, non solo circa la vicenda, ma circa i meccanismi, le finalità e le conseguenze della giustizia – e del resto, non è la storia che ci insegna a diffidare, e a interrogarci talvolta sulla legittimità etica della giustizia? Non è Bruno Morchio che – in un contesto certamente diverso – all’inizio ricorda i campi di sterminio? A sproposito, ho subito pensato; ma alla fine non emerge qualche strana connessione?
Che senso hanno avuto le faticose ricerche di Bacci Pagano? continuerà a fare indagini se poi deve metterle da parte? E Bruno Morchio, quale altro romanzo ci farà leggere?

Qualcosa ancora ci ha fatto ancora leggere Bruno Morchio. Il suo successivo romanzo (del 2021) è Nel tempo sbagliato. Bacci Pagano e l’irresistibile arte della fuga. Gli fanno da esergo alcune citazioni: da Leopardi, da Montale; e da una canzone di Sylvie Vartan, che contiene il termine “irresistibilmente”, e tornerà, quasi leitmotiv, nel romanzo.
Il termine “tempo sbagliato” compare come titolo del cap. 13, in una riflessione di Bacci Pagano mentre attende al telefono che la segretaria gli passi Pizarro (il marito che gli chiede di indagare sulla scomparsa della propria giovane moglie, Myra: Miroslava Rostova). Sbagliato dev’essere il tempo in cui gli viene affidato il caso della scomparsa di Myra: “troppo presto, o troppo tardi”. Sbagliato anche perché è il tempo problematico in cui Bacci Pagano si trova a disagio nella nuova situazione che vive, lascia l’appartamento avito e le consuetudini di una vita. Sbagliato è forse il tempo letterario, e interiore, di Bruno Morchio, che nei generi invalsi si sente stretto (saranno gialli, noir, o thriller i suoi lavori?), non si attiene a codici precostituiti, si pone domande, e si attende risposte, che vanno oltre essi.
Decisamente sbagliato poi è il marito, Carlo Pizarro, cui Myra si lega e tenta disperatamente di sfuggire: la protagonista dispersa, inquieta – che appartenga a lei l’irresistibile arte della fuga? Sbagliati (e non solo per lei) sono i tempi e i luoghi, i lavori, gli ambienti in cui consuma la sua breve e intensa esistenza, la sua strepitosa bellezza. Non usuale è la sua preparazione culturale, la dedizione alla Letteratura latina (in cui si laurea), soprattutto il tener vivo l’amore per gli studi, nella convinzione, certo fuori tempo, che siano la cosa in assoluto più importante per lei: li segue con una determinazione che appartiene purtroppo a epoche lontane da quelle in cui vive. Gli epigrammi erotici di Marziale sono il tema delle sue ricerche, ad essi è dedicata la sua prima, ottima, pubblicazione – e anche questo non deve esser privo di agganci con la sua personalità. Fuori tempo sono le sue aspirazioni, la sua costanza, la sua voglia di realizzarsi in un mondo diverso da quello da cui proviene (l’Ucraina degli anni prossimi al disfarsi dell’Unione Sovietica), e che di fatto presto la espelle da sé. Ma “il tempo sbagliato”, quello più sbagliato di tutti quanto a effetti che produce, è stato quello in cui Myra concepisce un bambino, si sente costretta a progettare un aborto. Che non effettuerà: “per motivi di forza maggiore”, a quanto consta.
La storia di per sé è semplice da raccontare: qualcuno (Carlo Pizarro) si rivolge a un detective privato e gli chiede di risolvere l’enigma che lo coinvolge: l’inspiegabile scomparsa della moglie Myra. Bacci fa tutto il possibile per venire a sapere, ripercorre metodi e vie a lui consueti, persone amiche cui già era ricorso in altre storie; ne tenta anche di nuovi. Gli è di grande aiuto la sua compagna, Mara: è lei che lo indirizza verso il luogo in cui tutto sembra risolversi, e non importa se imprevedibilmente.
Il romanzo è più complesso di quanto a tutta prima appaia. Si intreccia di vari strati: la storia personale di Bacci, per certi tratti nota a chi abbia letto altri suoi romanzi. Storie di altri vicini a Pagano, tra cui Mara, la sua compagna; altre persone incontrate. Riflessioni storiche, sociologiche, ambientali, esistenziali, letterarie (i rinvii letterari, anche al mondo del genere in cui Morchio si muove); e riflessioni sul proprio stesso lavoro da parte dell’autore. Anche i sapori variano (i vini e i cibi quasi sempre liguri, per non dire del mare), e le atmosfere: da emotive a erotiche a anodine.
Lo stesso linguaggio del romanzo è vario, da pianamente narrativo (senza disdegnare modi di dire e termini corrivi, dialettali, o alla moda), a uno stile più elevato: meditativo, rievocativo, con accenti persino poetici. Senza contare i modi di esprimersi di Paula Pataki (ungherese, intima amica di Myra), che risente di inflessioni straniere. Così vario è il contesto storico attraversato, dall’Ucraina al mondo genovese, denso di rimandi architettonici, paesaggistici: da postindustriale, a marino e collinare.
Non sembra l’andamento del romanzo incongruo col finale? E coi rapporti che si instaurano tra Pagano e Pizarro, persino nell’inquietante confronto finale? Solo un buon psicologo potrebbe venirne a capo: uno psichiatra più che uno psicanalista, a quanto posso intuire. La psicologia proprio non manca, e pour cause, nel romanzo, la si ritrova un po’ dovunque, a proposito di personaggi diversi; ma ha più campo nel confronto di Bacci Pagano con Carlo Pizarro.
Importa che il problema da cui tutto è partito e ha messo in moto le facoltà investigative, la fatica, il tempo di Bacci Pagano, semplicemente non esisteva, era già risolto; l’enigma era solo presunto. Era stato inventato ad arte da chi a lui si è rivolto, per depistare ogni indagine, per allontanare da sé ogni sospetto. È come se il romanzo si mordesse la coda.
Pagano ha tralasciato di indagare proprio la cosa decisiva; troppi ostacoli interiori si sono opposti ad accettarla, tanto era opprimente il prospettarla da subito. Ed è stata una donna a indirizzarlo. Bacci Pagano si fiderà del consiglio dell’amica Mara, seguendolo scioglierà il caso propostogli.
Qualcosa nel finale resta aperto: non c’è confessione, non è ancora costituito alcun tribunale che accerti i fatti e giunga a una sentenza, nei vari gradi di giudizio. Le prove che porterà Pagano saranno sufficienti a condannare Pizarro? E se lo saranno, quanti anni di carcere lo attendono? Chi annuncerà ai genitori, alle amiche e agli amici stretti la terribile notizia? Che eco resterà di Myra a Genova?
Certo è che Pizarro verrà indagato, poi arrestato e processato. Lo preannuncia la telefonata finale a Totò Pertusiello, che si prenderà carico del caso. Risponde un centralino, nell’attesa dell’arrivo del commissario della sezione omicidi è di insinua una musica: “ma non era Irresistibilmente” (di Sylvie Vartan). Queste le parole sintomatiche su cui si chiude il romanzo.
Fonte: “Odissea” di martedì 8 febbraio 2022 – rubrica Liber